La riabilitazione cognitiva (2) - Che succede quando uno dei nostri “circuiti” si danneggia?
(18/07/2022)
In un precedente articolo abbiamo parlato dei nostri processi cognitivi (o funzioni corticali superiori) e della loro anatomia. In pratica abbiamo cercato di capire dove avviene, nel nostro cervello, l’elaborazione delle percezioni e dove hanno luogo quei processi che ci consentono di fare esperienza del mondo, relazionarci con l’ambiente esterno e che definiscono alcune nostre abilità.
Ma siamo sicuri di conoscere al massimo le funzioni del nostro cervello? E che cosa avviene se una specifica parte di esso subisce un trauma o un danno?
La risposta, ovviamente, è che ancora non conosciamo tutto quello che c’è da sapere sul nostro cervello; però possiamo provare a descrivere quello che abbiamo imparato nella Storia attraverso lo studio, la pratica e l’esperienza, in particolare attraverso alcuni casi sperimentali e clinici davvero singolari.
Immaginiamo di avere tra le mani un oggetto, un dispositivo estremamente complesso, una sorta di circuito elettronico dotato di generatori di tensione, induttori, condensatori, resistori, ma anche di diodi, transistori a effetto di campo, porte logiche, moduli integrati e via dicendo; insomma, un oggetto costituito da un enorme numero di sezioni e componenti. Magari siamo in grado di utilizzarlo, perlomeno in buona parte, ma non è detto che conosciamo la funzione di tutti questi elementi. Un po’ come spesso avviene con il nostro pc o le impostazioni del pannello di controllo della nostra auto.
Se però un componente o una sezione subisce un danno, è probabile che avremo una perdita di alcune funzionalità del nostro dispositivo e questo ci aiuterà a comprendere meglio la stessa utilità degli elementi che si sono danneggiati.
Ebbene, il cervello umano viene talvolta definito come l’oggetto più complesso dell’intero Universo.
Per completare l’argomento intrapreso con lo scorso articolo, quindi, oggi ragioneremo in maniera un pochino più “pratica” e vedremo quali sono le implicazioni cognitive di un danno cerebrale; lo faremo riportando alcune evidenze sperimentali del ruolo ricoperto dalle diverse aree associative del nostro cervello e citeremo anche qualche interessante caso clinico reale.
Attivazione cerebrale in un task di memoria rilevata tramite imaging di Risonanza Magnetica funzionale (fMRI) [Sharon S. Simon et al, «Cognitive and Brain Activity Changes After Mnemonic Strategy Training in Amnestic Mild Cognitive Impairment: Evidence From a Randomized Controlled Trial», Frontiers in Aging Neuroscience, 2018]
- Corteccia parietale posteriore (CPP)
Le persone che hanno riportato lesioni nella corteccia parietale posteriore destra mostrano l’incapacità di percepire, esplorare e agire nello spazio controlaterale alla sede del danno (sebbene i loro canali sensoriali rimangano ovviamente inalterati). Di fatto, la persona si comporta come se non riuscisse a percepire (né concepire) l’esistenza di una parte dello spazio circostante; inoltre vi è anche una mancanza di percezione della metà controlaterale del proprio corpo (“emisoma”). Le persone con questa condizione possono per esempio non mangiare il cibo nella metà sinistra del piatto, o non lavare la metà sinistra del corpo. In alcuni casi, un uomo si può radere perfettamente la barba, ma solo da una parte.
Come una persona con “neglect” o “eminegligenza” percepisce il cibo su un piatto, trascurandone di fatto la metà
Edoardo Bisiach ha mostrato in un famoso esperimento l’esistenza di una “eminegligenza” che coinvolge anche la memoria dello spazio extra-personale, secondo un sistema di riferimento centrato sul corpo. Se ne concluse che la CPP è cruciale per la consapevolezza della struttura e delle dimensioni del nostro corpo - e anche dello spazio che lo circonda - e per la relativa rappresentazione mentale.
Un altro fatto che sappiamo della CPP destra è che è implicata nella cognizione numerica (che è parte delle capacità cognitive matematiche). Insomma, la CPP sarebbe la sede della “linea mentale dei numeri”, ossia della visualizzazione dei numeri in successione lungo una linea (da sinistra verso destra). Nel nostro cervello, quindi, si direbbe che i numeri siano in qualche modo “codificati spazialmente”.
L’area associativa posteriore di sinistra è inoltre coinvolta nel linguaggio: ciò è legato alla presenza in tale area del giro angolare, dell’area di Wernicke e di altre aree (perisilviane) coinvolte nella comprensione della parola letta (visivamente o tattilmente, ossia in Braille) o udita.
A proposito dell’area di Wernicke: una lesione in questa zona può far sì che la persona colpita “parli a vanvera”, ma con una perfetta costruzione delle frasi, che quindi saranno impostate con il giusto ordine grammaticale.
Vignetta che rappresenta il dialogo tra un paziente e lo scienziato tedesco Carl Wernicke (1848-1905), che nel 1874 scoprì l'area cerebrale che porta il suo nome. ©Tony De Saulles, 1999
Riguardo al linguaggio, la corretta pronuncia delle parole è sottoposta al corretto funzionamento dell’area di Broca (connessa all'area di Wernicke da un percorso neurale chiamato fascicolo arcuato), che ha la funzione di inviare il giusto messaggio all’area corticale motoria che controlla il movimento delle corde vocali, della lingua e delle labbra.
Caricatura del sacerdote inglese William A. Spooner (1844 - 1930), dal cui nome proviene il termine "spoonerismo": un errore di pronuncia in cui si scambiano le iniziali delle parole probabilmente dovuto a una lacuna nell'area di Broca. ©Tony De Saulles, 1999
Insomma, quando parliamo con qualcuno stiamo utilizzando diverse aree cerebrali che si coordinano tra di loro solo per controllare la pronuncia e la costruzione delle frasi; le aree motorie, poi, ci permettono di far lavorare sinergicamente corde vocali, lingua e labbra, per non parlare dei gesti (che molto spesso ci consentono di “rafforzare” i concetti!).
- Corteccia parietale inferiore (CPI)
Quest’area ha un ruolo nella memoria di lavoro (quella che mantiene le informazioni durante l’attuazione di un comportamento, ad esempio quando ascoltiamo una frase o un racconto combinando le parole in un pensiero logico, coerente e completo o quando, ad esempio, cerchiamo la nostra automobile parcheggiata in mezzo ad altre, oppure anche quando scegliamo il percorso migliore per raggiungere un posto utilizzando il cosiddetto “taccuino visuo-spaziale”; sembra in particolare che la CPI sinistra sia il substrato neurale del magazzino fonologico per la memoria di lavoro verbale. Invece, il taccuino visuo-spaziale per la memoria di lavoro non verbale sembrerebbe essere situato nella CPI destra. Quindi, la memoria di lavoro nascerebbe dal coordinamento tra zone parietali (magazzino fonologico e taccuino visuo-spaziale) e zone prefrontali.
- Corteccia prefrontale (CPF)
Fra l’uomo e i primati non umani questa è l’area che differisce di più; ciò fa intuire la sua probabile responsabilità delle funzioni corticali superiori che ci distinguono di più da questi animali. La CPF si divide in tre regioni: dorsale, mediale e orbitofrontale (o ventromediale).
I pazienti che hanno lesioni a sezioni diverse della CPF hanno mostrato ciò che è stato visto anche attraverso esperimenti di imaging cerebrale svolti con soggetti normali impegnati in compiti diversi ed esperimenti di lesione e successiva registrazione dell’attività di singoli neuroni nelle scimmie: aree diverse della CPF giocano ruoli diversi nelle funzioni corticali superiori.
Per esempio, la corteccia prefrontale dorsolaterale (CPFDL) sembra avere il ruolo principale di esecutivo centrale (una sorta di “sistema supervisore”) nella memoria di lavoro. In effetti si è visto che gli animali (tra cui l’uomo) con lesioni in quest’area riportano gravi deficit di memoria di lavoro: non appena si propone un "compito di scelta ritardata" introducendo un ritardo temporale fra il momento in cui si mostra all’animale in quale contenitore (fra due o più) viene nascosto del cibo e quello in cui esso può selezionarne uno per nutrirsi (basandosi quindi su un’informazione che deve memorizzare e mantenere per qualche secondo), in caso di lesione la prestazione risulta molto scadente.
Sembra anche che la CPF venga attivata per lo svolgimento di compiti complessi di riconoscimento visivo, come quelli in cui gli oggetti sono visti da una prospettiva inusuale: il reclutamento delle aree prefrontali, in aggiunta a quello delle aree associative posteriori, consentirebbe processi di “rotazione mentale”, per riuscire a riconoscere l’oggetto in base all’esperienza fatta dello stesso sotto una prospettiva “canonica”. Il reclutamento di aree prefrontali durante lo svolgimento di compiti “difficili” viene suggerito anche da osservazioni in soggetti anziani che mantengono buone prestazioni nei compiti di memoria di lavoro o di memoria a lungo termine: in tali soggetti, infatti, si osserva l’attivazione bilaterale di aree prefrontali (un aspetto interessante: nei soggetti giovani l’attivazione è localizzata in un solo emisfero cerebrale).
La CPF ha anche un ruolo nel recupero delle tracce di memoria dichiarativa (relativa a informazioni richiamate consapevolmente) formatesi da lungo tempo: si attiva infatti durante la codifica e il recupero di memorie episodiche (appartenenti alla memoria dichiarativa, sono quelle relative ai ricordi della nostra vita).
Inoltre, lesioni alle aree associative prefrontali causano la cosiddetta amnesia della fonte, ossia l’incapacità di ricordare quando e dove un nuovo fatto è stato appreso.
Danni al settore ventromediale della corteccia prefrontale sconvolgono invece il comportamento sociale: individui anche ben inseriti nella società diventano incapaci di osservare le regole sociali e di decidere in maniera vantaggiosa per sé stessi mantenendo prestazioni normali in compiti di memoria, di linguaggio e di attenzione.
Un caso curioso: Phineas Gage
A questo proposito, il primo caso documentato (nonché uno dei più noti in Neurologia) è quello di Phineas Gage (1823 - 1860): il 13 settembre 1848 vicino alla città di Cavendish, Gage, che lavorava nella costruzione di ferrovie, stava inserendo una carica esplosiva in una roccia che doveva essere fatta saltare in aria dato che bloccava il passaggio della linea in costruzione. Sfortunatamente la polvere da sparo esplose proprio mentre Gage la stava compattando con una sbarra di ferro, che fu proiettata in aria colpendolo in volto e perforando la parte anteriore del suo cranio. Questo provocò un grave trauma che interessò i lobi frontali del suo cervello, lesionando in particolare la parte ventrale e mediale della CPF.
Rappresentazione grafica (d'epoca) e in CGI dell'area del cervello di Phineas Gage interessata dall'incidente
L’aspetto incredibile di questa vicenda è che Gage sopravvisse a questo incidente ed era cosciente e perfino in grado di parlare dopo pochi minuti, tornando addirittura a uscire autonomamente di casa dopo 3 settimane dal trauma. Tuttavia, l’evento ebbe notevoli conseguenze sulla personalità di Gage, che da persona socievole, affidabile e dedita al lavoro quale era divenne iroso, asociale, privo di freni inibitori, incline alla blasfemia e incapace di organizzarsi nel lavoro e nella vita valutando i rischi delle proprie azioni. Questo però non gli impedì di trovare un nuovo lavoro e di esibirsi perfino di fronte a un pubblico in spettacoli di natura circense, in qualità di “uomo colpito da una sbarra che gli ha trapassato il cranio e sopravvissuto”. Tutto questo ci fa capire come la CPF sia implicata anche nella definizione della nostra personalità e delle nostre emozioni, sebbene alcuni processi decisionali (ma non tutti, come vedremo tra poco) siano localizzati in altre aree.
Dagherrotipo di Phineas Gage col ferro di pigiatura in mano. Si nota la ptosi palpebrale all'occhio sinistro
©originalmente dalla collezione di Jack and Beverly Wilgus, ora nel Warren Anatomical Museum, Harvard Medical School
Il caso di Phineas Gage ha contribuito a portare notevoli evoluzioni nella comprensione di alcune funzioni corticali superiori e della loro localizzazione nel cervello: anche in seguito alle riflessioni conseguenti a questo avvenimento, nella metà del XX secolo sono stati usati metodi (oggi in totale disuso) come la lobotomia prefrontale per curare certi tipi di disturbi del comportamento (è tristemente nota la storia di Rosemary Kennedy, sorella di John Fitzgerald e di Robert, lobotomizzata a 23 anni a causa dei suoi sbalzi d’umore e della sua condotta sessuale libera e disinvolta).
Anche il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, dal 1994, ha portato avanti lo studio su questo tipo di pazienti: utilizzando test di laboratorio che simulano il gioco d’azzardo, egli ha dimostrato che fra un mazzo di carte la cui sequenza darà un guadagno certo e uno in cui si avrà una perdita certa, i soggetti con lesioni alle aree ventromediali, che includono la corteccia orbitofrontale, continuano a selezionare quello svantaggioso.
Damasio ha quindi ipotizzato che l’incapacità di prendere decisioni vantaggiose dimostrata dalle persone con lesioni alle CPF ventromediali sia causata dal danno a un meccanismo emozionale che immagazzina e segnala il valore delle conseguenze di un’azione. Risulterebbe quindi evidente che la CPF ventromediale sia implicata anche nei meccanismi decisionali e nei meccanismi alla base del comportamento emotivo, nonché nell’attribuzione della qualità di “attrattivo” che alcuni stimoli hanno per noi.
- Corteccia frontale mediale
Quest’area sembra particolarmente responsabile della flessibilità del comportamento e del suo controllo cognitivo. L’individuazione di conseguenze sfavorevoli, di errori di risposta, di risposte conflittuali e di incertezze decisionali attivano alcune zone della corteccia frontale mediale ed evocano l’attività neuronale in un’ampia parte della corteccia frontale mediale posteriore. Quest’ultima include anche la corteccia cingolata anteriore - e ciò sarebbe correlato con la successiva correzione della prestazione comportamentale. La corteccia frontale mediale posteriore sembrerebbe quindi implicata nell’attività di monitoraggio di comportamenti in contesti in cui si anticipa la presenza di una “ricompensa”, mentre la CPF laterale sembrerebbe implicata nell’attuazione delle correzioni alle nostre strategie comportamentali.
- La memoria di H.M.: strutture mediali del lobo temporale
Le strutture mediali del lobo temporale svolgono un ruolo cruciale nella memoria dichiarativa. Lo studio delle strutture coinvolte in questo tipo di memoria ha avuto praticamente inizio nel 1953, con le osservazioni di William Scoville e Brenda Milner. In quell’anno si verificò il caso di un paziente di nome Henry Molaison, noto come H.M. (1926 - 2008), che rivoluzionò le conoscenze sull'organizzazione della memoria umana, portando alla nascita di nuove teorie relative ai suoi processi e alle basi neurali sottostanti.
A causa di una grave forma di epilessia farmaco-resistente, il 1° Settembre 1953, all’età di 27 anni, H.M. fu sottoposto dal dottor Scoville all’ablazione chirurgica di entrambi i lobi temporali mediali.
La descrizione dello stesso dottore fu: “è stata svolta una resezione bilaterale dei lobi temporali mediali, avanzando posteriormente per una distanza di 8 cm dal punto centrale del bordo del lobo temporale, con il corno temporale a comporre il margine laterale della resezione”.
H.M. e il suo stato cognitivo: non riuscendo a immagazzinare nuovi ricordi, il paziente ricordava di avere 27 anni anche quando ormai era trascorso molto tempo dall'operazione.
Di fatto, verso la fine della propria vita era come “un giovane nel corpo di un anziano”.
In basso si può vedere un’illustrazione del cervello di H.M. confrontato con quello di una persona sana
A seguito dell’operazione, che ridusse la gravità dei suoi attacchi epilettici, H.M. cominciò a soffrire di una gravissima forma di amnesia anterograda: egli era infatti diventato incapace di formare nuove memorie a lungo termine relative a fatti (memoria semantica) ed eventi (memoria episodica). Inoltre mostrava anche una limitata amnesia retrograda, cioè la perdita di memoria relativa a fatti o eventi accaduti prima dell’intervento (che nel suo caso si estendeva all’indietro anche fino a tre anni). Invece, la memoria di fatti ed eventi avvenuti diversi anni prima dell’intervento era rimasta perfettamente intatta. Nonostante la sua condizione, H.M. conservò l’abilità di formare tracce di memoria procedurale (memoria di come si fanno le cose e di come si usano gli oggetti, come ad esempio legarsi una scarpa o andare in bicicletta senza pensarci “consapevolmente”), perciò egli poteva, ad esempio, apprendere nuove abilità motorie… sebbene non riuscisse a ricordare dove o come le avesse apprese.
Tutto questo suggerì che la memoria implicita (procedurale) e quella esplicita (semantica o episodica) sono presiedute da substrati neurali differenti, e che l’ippocampo e le altre strutture del lobo temporale mediale sono fondamentali per la formazione iniziale di una traccia di memoria dichiarativa a lungo termine, alla cui formazione contribuiscono informazioni che vengono da aree associative differenti. La traccia di memoria costruita dalle suddette informazioni sarebbe quindi lentamente trasferita nel “magazzino” definitivo, costituito quindi da aree associative neocorticali, tra cui appunto le aree prefrontali.
©Tony De Saulles, 1999
In questo articolo e in quello precedente abbiamo provato a catalogare e comprendere le nostre funzioni corticali superiori e la loro anatomia, descrivendo anche alcune possibili conseguenze cognitive di un danno cerebrale (con qualche riferimento a casi storici, clinici o sperimentali); da qui potremo andare avanti e parlare più nello specifico di quel tipo di terapia riabilitativa che intende contrastare queste situazioni, stimolando e riequilibrando quanto più possibile l’attività e la funzionalità del nostro cervello: la riabilitazione cognitiva.
In sintesi: abbiamo definito, in maniera riassuntiva, alcune funzioni cognitive, i loro substrati anatomici e le conseguenze dei danni ai suddetti substrati; in un prossimo articolo accenneremo al tipo di riabilitazione che intende rispondere a questi stessi danni.
Prossimamente rifletteremo sul nesso che esiste tra la riabilitazione cognitiva e la “terapia robotica motoria” e richiameremo qualche strategia risolutiva, cioè qualche modalità di “esercizio” che viene attualmente proposto a pazienti con deficit cognitivi.